Firenze 4 novembre 1966

Testo di Sara Cividalli

Dalla grande finestra non entra quasi più luce, si sta facendo buio. Sdraiata di traverso sulla poltrona non riesco a leggere e vado con il pensiero a questa giornata così strana.

Non ho ancora 14 anni, mi sembra di vivere un’avventura, una di quelle avventure da raccontare, un giorno.

Non si va a scuola, è festa. È giunta la notizia che l’Arno ha rotto gli argini. Con frenetica calma la mamma riempie delle taniche di acqua, l’esperienza della guerra le ha insegnato che sarà la prima cosa a mancare. Il babbo sposta le automobili sul viale, il garage è sotto il livello della strada e può essere facilmente invaso dalle fogne straripanti. Io vengo inviata a comprare qualcosa da mangiare in una delle botteghe, una di quelle botteghe che ancora esistevano proprio lì vicino a casa. Compro alcune cose tra cui, ricordo, dell’insalata che poi risulterà assolutamente inutile perché non ci sarà modo di lavarla. Sto per andare in un’altra bottega ma arriva l’acqua, corro verso casa, non c’è più elettricità, l’ascensore non funziona salgo le scale per arrivare fino al sesto piano.

Ha piovuto tutta la notte, piove da giorni, ora non piove quasi più. Affacciandoci dalla terrazza vediamo persone che camminano per la strada nonostante l’acqua marrone sia sempre più alta, tengono ben dritto l’ombrello, strane immagini. A poco a poco l’acqua copre i tetti delle macchine e continua a salire.

C’è un profondo silenzio, non il silenzio ovattato della neve, non il silenzio di un bosco la notte, non il silenzio della città vuota nel mese di agosto. Un silenzio denso senza il suono di uccelli, senza il miagolio di un gatto o l’abbaiare di un cane, un silenzio che resta silenzio anche quando si sente il rumore di una barca che passa e il suono della voce di qualcuno che strilla di non accendere il gas perché potrebbe scoppiare tutto. Silenzio che odora di nafta. Quanto durerà questo silenzio?

L’acqua ha invaso il pianterreno del palazzo, la giovane famiglia con due bambini si è spostata al primo piano dove abitano i genitori. Hanno dimenticato sul tavolo di cucina il ciuccio del bimbo più piccolo che ora piange. Nell’androne galleggia un tavolo solitario.

I miei genitori sono tranquilli, io sono tranquilla, anzi ho questa sensazione di avventura che finalmente è capitata anche a me.

Una giornata trascorsa tra uno sguardo giù alla strada e la lettura di un libro, “Atomi in famiglia” la storia di Marie Curie.

Fa buio presto, è novembre. Abbiamo le candele, le usiamo con parsimonia. Si cena e si va a letto. La mattina dopo l’acqua è sparita lasciando un fango viscido maleodorante, untuoso. Terra mista a gasolio.

Appena possibile noi ragazzini veniamo mandati via, si teme il tifo per cui ci danno delle pasticche, tutto è complicato ed è meglio allontanarci. Andiamo in campagna, a Colleoli. Un mese di una strana vacanza in cui giochiamo a ping-pong, mangiamo schiacciata dolce appena uscita dal grande forno, diamo da mangiare agli animali, giochiamo con Maria e Lucia quando tornano da scuola. Chiedo di andare a scuola con Maria, che mi è coetanea, ma con mia grande rabbia la sua scuola superiore mi rifiuta.

Al rientro a Firenze l’avventura ricomincia, vado al tempio che è stato devastato dall’acqua e insieme ad altri volontari metto carta assorbente tra una pagina e l’altra di libri non troppo preziosi. I libri rari alluvionati e i sefarim sono stati portati a Roma. Mentre lavoriamo ci sentiamo importanti, poi si scoprirà che il lavoro fatto non solo è stato inutile ma anche dannoso. Parliamo di quello che è avvenuto: di rav Belgrado, di suo figlio Andrea, di quello che hanno fatto e di quello che hanno tentato di fare. Le mani sfogliano le pagine. Il fango tra le dita, sensazione di unto, odore pungente.

Odore che proviene dal fango che ancora è per la città e che è nelle magliette, nei fazzoletti, nei rocchetti di filo che la mamma compra in una bottega alluvionata. Compra quelli meno sporchi, oggetti che si possono lavare. Non ne abbiamo bisogno. Quel negozio era stato chiuso nel periodo della Shoah perché di un ebreo, il foglio che lo attestava, conservato in un cassetto, ora porta anche le tracce dell’alluvione.

Le foto sono di Giorgio Cividalli.