Raffaella Carrà


Testo di Daniel de Lucia

Io e mia nonna ogni sabato sera non ci perdevamo mai neanche una puntata di Raffaella Carrà in “Carramba che sorpresa!” e poi “Carramba che fortuna!”.

Mentre nonno aveva sua sorella che era emigrata in Argentina e di cui perdemmo le tracce, nonna aveva negli Stati Uniti diversi fratelli.

Sentivamo per questo motivo, molto vicine a noi le storie di immigrazione italiana nelle Americhe dal primo Novecento al secondo dopoguerra.

Raffaella permise ad un paese intero al quale noi appartenevamo, di essere per la prima volta raccontati nella televisione pubblica da una grande diva come lei e in prima serata.

Quando ascoltavamo le storie delle famiglie che Raffaella riuniva tra le due sponde dei due continenti occidentali, noi eravamo particolarmente pieni di speranza che il programma potesse proseguire con numerose edizioni e che puntata dopo puntata, potessimo essere anche noi una delle famiglie che sarebbe stata riunita alla fine dalla Carrà.

Sembrava di raccomandarsi alla Carrà che aveva contatti da noi e nelle Americhe. Nonna si commuoveva e io di rimando con lei.

Infatti, io non comprendevo molto il pathos dell’evento lì per lì, se non quando riportavo la mia attenzione in casa e scorgevo il volto commosso di nonna.

Raffaella permise a mia nonna di provare le stesse intense emozioni sulle medesime storie familiari, seppur non direttamente con i propri cari.

Il momento clou del programma era quando Raffaella urlava ad esempio, “E DALL’AMERICAAA ZIO ANTONIOOO ÈÈÈ QUIII!!!”, e i due o più cari si abbracciavano commossi con una grandissima umiltà e dignità.

Il candore dell’umanità disgraziata.

La telecamera a quel punto andava ruotando ripetutamente attorno i familiari ricongiunti in studio, che si stavano abbracciando e Raffaella eclissava con altrettanta umiltà e dignità i fari da sé, per dar spazio solo a loro, umili contadini italiani del più remoto paesino meridionale.

A scuola non ci insegnavano niente di quella fase storica migratoria dall’Italia alle Americhe, nonostante fosse la nostra storia familiare, la storia di milioni di italiani, e così imparai che si partiva dai porti di Napoli e Genova attraversando prima l’intero Mediterraneo occidentale e poi l’intero Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra.

Si sbarcava in Argentina, Brasile, Venezuela, Stati Uniti. Avviava il viaggio il padre che solitamente si portava dietro il primogenito. Scrivevano lettere dalle Americhe nelle quali fingevano di aver fatto la fortuna ma in realtà probabilmente si ritrovavano in condizioni anche più misere di quelle originarie di partenza.

Mia nonna diceva, servivano proprio allora i muratori qua e loro andarono via. La guerra, infatti, da noi aveva raso tutto al suolo.

Fu così che cominciai a coltivare la mia passione per la storia contemporanea.

Osservando e imparando dalla commozione di nonna che seguiva con me, la Raffaella Carrà.

Raffaella che quando ormai partiva l’abbraccio tra i componenti ritrovati di una famiglia, faceva qualcosa di spaventosamente umano.

Dava le spalle al pubblico. Le dava affinché si disattivasse la sua solarità e tutto lo sguardo del pubblico fosse solo per quella famiglia. Una famiglia che meritava ora tutta la divinizzazione delle loro persone e delle loro vite. Raffaella dava le spalle in particolare, per cedere attenzione mediatica e sociale su una famiglia molto umile dell’entroterra meridionale italiano ma anche per un altro motivo… Io e nonna lo intuivamo. Anche Raffaella cioè, si stava commuovendo e il pubblico, il pubblico non doveva sapere che una dea si fosse fatta donna. Una di noi.