
Testo di Olga Neerman
Sono una piccola hanukkia nera che in tempi lontani apparteneva a un vecchio ebreo di origine corfiota emigrato a Venezia. Ora mi trovo nella stessa meravigliosa città in casa di una novantanovenne, anch’essa ebrea e pronipote dell’anziano di Corfù. La signora mi tiene con molta cura, mi spolvera spesso, mi unge con l’olio, mi lucida per farmi apparire più giovanile e un giorno mi raccontò la sua storia: “Eh, vecchia mia – iniziò -quante cose, belle e brutte, abbiamo passato nella nostra vita! Ti ricordi quando i tuoi stoppini di cotone intrisi d’olio tentavano di illuminare un angolo del nostro salotto per la festa di Hanukkà? Si spegnevano quasi sempre e noi bambini ridevamo,
Avevamo la nazionalità belga ed eravamo, come tanti altri ebrei in Italia, non osservanti, molto assimilati, ma seguivamo certe tradizioni riguardanti le feste principali e parzialmente la casherut.
Nonostante ci sentissimo in tutto uguali agli altri italiani, furono le leggi razziali del ’38 e le conseguenti discriminazioni a farmi finire in un collegio diretto da religiose cattoliche.
Nel 1940 iniziò la guerra a fianco della Germania, con tutti i suoi orrori. A noi ebrei furono tolti tutti i diritti civili, ma riuscivamo ancora a sopravvivere. Fu con l’8 settembre 1943 che la nostra situazione iniziò a precipitare.
A seguito dell’armistizio con gli alleati, i tedeschi invasero il centro-nord della nostra penisola e finalmente gli ebrei italiani capirono che bisognava fuggire. Anche noi scappammo.
E come riusciste a mettervi in salvo? chiese la hanukkià
Avvertiti da un “angelo” sconosciuto, lasciammo sulla tavola la nostra minestra di riso e patate (ricordo perfettamente ciò che la mamma aveva appena scodellato) e con poche cose in un sacco fuggimmo a testa bassa per non essere visti dai vicini, come dei delinquenti. Senza documenti falsi, con il denaro appena sufficiente per un mese, dopo un inutile tentativo di arrivare a Roma, raggiungemmo Bassano del Grappa. Da lì, a piedi e tra mille difficoltà percorremmo l’impervia Val Frenzela e la lunga Val di Nos per giungere infine a Malga Boscosecco, sull’altopiano di Asiago a 1640 m. di altitudine.
Nella malga, ben nascosta tra i boschi, avevano già trovato rifugio tre cognati di mio padre ed un loro amico. Invece la mamma e una sua cognata non ebrea si sistemarono in due vani di una macelleria nel vicino paese di Gallio dove si fecero passare per sfollate.
Due locali di Malga Boscosecco ci erano stati aperti da un guardaboschi di Roana, un ex recuperante di residui bellici della guerra 1915-18, mutilato di due dita di una
mano.
L’uomo, pur conoscendo i rischi che correva, non esitò ad aiutare senza alcuna ricompensa degli esseri umani colpevoli soltanto di essere ebrei.
Mi sembra impossibile poter sopravvivere in quel luogo così inospitale! esclamò la hanukkià.
Purtroppo Malga Boscosecco era sprovvista di acqua. Per averne un po’ bisognava sciogliere la neve, bollirla e, per disinfettarla, aggiungere poche gocce di candeggina.
L’elettricità era inesistente (avevamo solo un vecchio lume a carburo), come pure i servizi igienici e il riscaldamento. Una buca-letamaio all’aperto sostituiva i primi, mentre, per avere un minimo di fuoco nel grande focolare, si doveva tagliare la legna nel bosco. Purtroppo, questa era umida, faticava ad ardere e riempiva il locale di fumo.
Dormivamo in uno stanzino di circa 12 m2 gelido come una ghiacciaia, usando come materassi fronde di pino, indossando tutto lo scarso vestiario che avevamo e coprendoci con logore coperte dell’Aeronautica Militare.
Soltanto la cucina era munita di vetri alle finestre. La temperatura invernale interna arrivava a stento a 8-10° e
il cibo consisteva in quel poco che la mamma riusciva a procurarsi con grande fatica al mercato nero. Io e mio fratello su degli sci sgangherati e con degli abiti inadatti per quel freddo inverno 1943-44 avevamo l’incarico di portare in malga le provviste, sempre in giorni e ore differenti per non destare sospetti tra la popolazione. Percorrevamo la salita in circa tre ore con la costante paura di essere scoperti e catturati. Secondo noi molti paesani sapevano… ma nessuno parlò mai.
Fra l’estate del ’44 e l’inizio del ’45 i partigiani intensificarono la guerriglia nella zona dell’altopiano e noi, rimasti ormai senza un soldo, ci trovammo in mezzo a continui combattimenti e rappresaglie tra nazifascisti e partigiani, quest’ultimi aiutati anche da militari alleati paracadutati nella zona.
Ai primi del ’45, con grande cautela e sempre percorrendo a piedi le vallate che uniscono l’altipiano alla pianura, tornammo e ci nascondemmo a Venezia.
E il 25 aprile (28 per Venezia) arrivò… il resto è storia.
Ma io, piccola hanukkia nera, continuo a chiedermi come mai finii in un
sotterraneo freddo e umido per così tanto tempo?
Infatti, tu fosti ritrovata dopo quasi due anni, dentro a un vecchio mobile che una vicina di casa aveva nascosto, assieme ad altre cose, nel magazzino di casa sua. La salsedine ti aveva coperto di una patina verdastra che ti faceva sembrare un rospo. Ma io ti ripulii e ritornasti in tutto il tuo splendore.
Il buon guardaboschi morì intorno agli anni ’60 e, tramite suo figlio, ci comunicò che non voleva alcun riconoscimento o onorificenza. “Ho fatto soltanto il mio dovere di uomo degno di tale nome” diceva. E noi rispettammo il suo desiderio.
Nel 2006 sul muro della Malga Boscosecco noi familiari, come appartenenti all’associazione figli della Shoah, abbiamo posto una targa che ricorda gli avvenimenti di quel tempo.
“In fuga dalle persecuzioni razziali una famiglia di ebrei trovò rifugio tra queste mura, grazie alla solidarietà della popolazione locale.
Che il ricordo riconoscente sia serbato e il futuro liberato dall’odio”