Il cuscussù


Testo di Genny De Pas

Il cuscussù, così si chiamava il couscous a casa mia. E qui a Livorno, alcuni lo chiamavano anche “lo scusccussù”.

Io, fin da piccola ho mangiato il cuscussù di mia madre e, verso i 18/20 anni, ho imparato da lei a cucinarlo. È tutt’altra cosa dal couscous perché possiede l’odore e il sapore della mia infanzia, delle tradizioni della mia famiglia.

Non si cucinava spesso, solo due o tre volte l’anno perché era un piatto speciale. Talvolta mamma decideva di farlo senza prima comunicarlo perché mio padre avrebbe sicuramente obiettato che non era la giornata giusta. Così faceva la spesa e lo metteva di fronte al fatto compiuto. Lui brontolava un po’, ma in realtà non gli pareva vero.

Non c’erano date o occasioni particolari ma una cosa era certa: mai nelle stagioni calde, mai per cena, e solo di domenica. Perché? Perché ognuno di noi ne mangiava almeno due porzioni (e piuttosto abbondanti!!) e dopo pranzo andavamo tutti a letto perché non ce la facevamo nemmeno a stare in piedi.

Come avrebbe potuto pappà (non è un errore di stampa: noi chiamavamo così il mio babbo) aprire il negozio? E come avremmo potuto noi tre metterci a studiare? Nel pomeriggio facevamo una pennichella di un’oretta e poi, con gran fatica e poca voglia, Ruggero, Roberto ed io dovevamo comunque metterci alle nostre scrivanie a fare i compiti. Nessuno usciva. Pappà si alzava più tardi di noi e si metteva a leggere il giornale o ad ascoltare la radio e mamma aveva il suo daffare in cucina per lavare i piatti. Lasciava i pentoloni con l’acqua dentro, li avrebbe lavati Dilva l’indomani.

Dilva era la storica domestica e veniva tutte le mattine ad aiutare mamma. Era ormai come una persona di famiglia, ci aveva visti crescere tutti e tre, conosceva le nostre usanze e una scodella di cuscussù era sempre riservata a lei. Un altro piatto veniva messo da parte per Biancarosa, la grande amica di mamma. Noi brontolavamo per queste due porzioni che venivano tolte alle nostre bocche però non c’era niente da fare. Ma voglio raccontare “l’evento cuscussù” con ordine. La prima fase, già molto impegnativa, era la spesa. Mamma cominciava due giorni prima da piazza Cavallotti dove comprava i cavoli e gli odori e li portava a casa perché erano pesanti.

Ricordo che una volta, quando aprì la borsa a rete della spesa, capì perché aveva durato particolarmente fatica: la proprietaria del barroccino, senza accorgersene, vi aveva infilato, oltre ai cavoli, il piatto della stadera con cui li aveva pesati!

Al mercato centrale, dal civaiolo di fiducia, comprava il couscous, quello grosso e non precotto. Infine, per ultima, la carne: lesso e macinato. La sera del sabato cominciavano i preparativi. Dal mobile di salotto tirava fuori l’enorme zuppiera che veniva usata solo per questo pranzo e cominciava la fase più importante e che coinvolgeva tutta la famiglia: torcere, ovvero girare a lungo e con energia, la semola con un po’ d’acqua e molto olio. Mio padre, in realtà, non faceva niente di pratico ma dispensava i suoi preziosi consigli: “Ci vuole olio di gomito!” “dai, più energia!”. Noi tre figli eravamo coinvolti in questa operazione e ci litigavamo sia per girarlo sia perché ognuno di noi si riteneva il più bravo. “Torcilo bene, apri le mani. Non si devono formare grumi!” insisteva pappà. “Vera, hai messo i fagioli in ammollo?”.

La mattina dopo, al risveglio, sentivamo un magnifico odore di fagioli, brodo e verdure che aveva invaso tutta la casa. Quel giorno facevamo colazione in salotto perché la cucina, pur essendo molto grande, era completamente occupata da pentole, vassoi e piatti vari. Noi non avevamo la cuscussiera e il couscous veniva avvolto dentro un robusto canovaccio e posato sul colapasta. Il tutto era messo sul pentolone in cui si faceva il brodo di carne e verdure a cuocere al loro vapore. Quando Ruggero, il maggiore di noi tre, andò a studiare alla Sorbonne, portò la cuscussiera da Parigi. Fu una grande novità. Certamente era la stoviglia idonea, concepita per la cottura ideale della semola ed era anche molto più pratica. Ma per nostro padre il cuscussù era molto più buono quando veniva cotto con il vecchio metodo, nel canovaccio sopra il pentolone.

A Ruggero, ogni volta che tornava a casa, veniva commissionato l’acquisto della semola perché “Come quella parigina non ce n’é”. E di questo era stranamente convinto anche pappà. La fama del buon couscous francese varcò i confini di casa mia e mio fratello, ad ogni suo ritorno in famiglia, doveva portarne anche per le amiche di mamma.

Ma finalmente arrivava l’ora di pranzo. Da casa mia si sentivano i rintocchi del grande orologio del Duomo e, quando ne risuonavano tredici, doveva essere tutto pronto. Il cuscussù arrivava in tavola direttamente nelle pentole perché non si raffreddasse e mamma faceva le parti. Ognuno la sollecitava: “Vera, metti più brodo”, “Mamma, dai, ancora!” “Ce n’entra ancora!” “Un altro po’ di fagioli…” “Due polpette sole?”.

A mio padre veniva servita anche una salsiera con il brodo che, per lui, non era mai abbastanza. Così iniziava la diatriba: mamma sosteneva che il cuscussù non era buono se troppo liquido (in realtà non aveva mai abbastanza brodo perché con la cottura si era consumato) e lui rispondeva che lei non se ne intendeva! Mentre, tra una lode e l’altra, assaporavamo quella squisitezza, c’era la gara a chi trovava più polpettine. Infatti, durante la preparazione venivano fatte tante minuscole polpettine di carne che cuocevano con le verdure. La tradizione voleva che il numero di polpettine trovate fosse proporzionale al comportamento più o meno buono dell’ultima settimana. E, fino a che io ero piccola e stracoccolata, gli uomini di casa mi facevano sempre vincere!

Questo era il cuscussù. Così si chiamava il couscous in casa mia.