Il mio Novecento


Testo di Simonetta Hager

I miei ricordi sono quelli di una bambina normalissima, che però man mano che cresce si rende conto che la sua famiglia ha fatto parte di un pezzo importante della storia del secolo.

Fin da piccoli andavamo spesso, mamma, papà, mio fratello Aurelio ed io, a Torino a trovare il nonno Eugenio Vita e gli zii Roberto e Bianca; le feste si passavano dai prozii, lo zio Arrigo e le zie Laura e Giulia, fratello e sorelle del nonno, che abitavano insieme in una grande casa in Corso Re Umberto 61, e lì c’era anche uno zio “adottivo “, il dolcissimo zio Nardo, che aveva un numero scritto sul braccio. Diceva a noi bambini che era il suo numero di telefono, scritto lì per ricordarselo visto che era smemorato. Più tardi capii cosa significasse quel numero, e che lo zio era il Leonardo de “La tregua” di Primo Levi. Lo zio Arrigo a causa delle leggi razziste non aveva più potuto esercitare come oculista e, dato che sapeva le lingue aveva tradotto molti libri per Einaudi ma senza il suo nome. Aveva imparato anche l’olandese, essendo oculista immagino ne avesse avuto bisogno perché allora il centro principale di quella branca della medicina era l’Olanda; a lui si deve la prima traduzione in italiano del “Diario” di Anna Franck.

Sapevo che il pianoforte su cui prendevo lezioni era stato della zia Lella, sorella di mia nonna Valeria; qualche volta la mamma portava me e mio fratello alla Scuola Agraria del Parco di Monza, dove la direttrice ci accoglieva con molto affetto perché eravamo i nipoti di zia Lella; col tempo la zia Lella e Aurelia Josz, la fondatrice della prima Scuola Agraria Femminile in Italia, deportata e assassinata ad Auschwitz, divennero la stessa persona anche nella mia piccola testa.

Durante le vacanze a Genova andavamo spesso a trovare i cugini Levi, Riccardo e la moglie Irma, e ad Alassio a Costa Carlina i fratelli di Riccardo, Carlo e Luisa; ero già più grandicella, e mi piacevano moltissimo i quadri di Carlo: verso gli undici anni lessi avidamente “Cristo si è fermato a Eboli”. Frequentai sempre casa Levi a Genova, dove mi ospitarono spesso anche anni dopo, quando arrivavo la sera tardi per iniziare ad insegnare in Conservatorio la mattina di buon’ora. Dormivo nella stanza degli ospiti, che era un po’ un deposito dei quadri che non avevano trovato posto sulle pareti, circondata dalle opere di Carlo Levi e di Stefano Levi Della Torre.

Alcuni amici di famiglia chiamavano mio papà “Tom”, ma lui di nome si chiamava Izak. La prima volta che gli chiesi il perché mi disse che era un nome che gli davano tra amici quando erano giovani. In seguito, mi raccontò tutta la sua storia di studente straniero in Italia, dell’arresto come ebreo straniero per cui venne internato a Campagna, di come riuscì a farsi rimandare a Torino e per poi passare a Milano sotto il falso nome di Giulio Tommasi e diventare partigiano e fondatore del CLN dei medici dell’alta Italia col nome di battaglia, appunto, “Tom”.

Parlava sempre di casa, della casa e della famiglia che aveva perso, e il suo infinito dolore e rimpianto mi hanno fatto sentire come dimezzata per gran parte della mia vita. Molti anni dopo la sua morte mio fratello ed io riuscimmo a ritrovare, tramite internet e il fondamentale aiuto di Jewish Gen e Missing Identities, nostra cugina Genia, unica superstite. E allora la mia identità si ricompose.

La mia mamma, Eleonora, che per tutta la sua vita è stata un’insegnante molto apprezzata, ci raccontava con allegria gli episodi della sua gioventù: della scuola ebraica, dei suoi compagni e professori, di quando attaccava i manifesti antifascisti e un milite le consigliò di andare a casa prima di incontrare qualche suo collega …Nel pieno della guerra fu mandata a Roma a finire il liceo per allontanarla da Torino che era sotto i bombardamenti. Poi venne nascosta a Bra presso amici, ma quando diventò pericoloso anche per loro (la casa era un punto di appoggio per i partigiani) rientrò a Torino e di lì, insieme con la famiglia, fuggì in Svizzera. Ricordava sempre le prime parole che udì, dopo essere passata tremando sotto la rete cercando di non far suonare i terribili campanelli messi apposta dai fascisti per segnalare il passaggio dei fuggiaschi e rotolata giù per un pendio: “N’ayez pas peur, vous êtes en Suisse”.

Avevo circa quindici anni quando all’allora Teatro dell’Arte furono proiettati per la Comunità i filmati girati dagli americani nei campi di sterminio e appena desecretati: nessuno di noi, giovani e adulti, si aspettava davvero di vedere tanto orrore. Lo sgomento e la disperazione furono terribili.

Subito dopo il diploma di Pianoforte cominciai a lavorare con Ersilia Lopez Colonna, meraviglioso mezzosoprano e meravigliosa persona; mi prese sotto la sua ala e mi insegnò tantissimo. Il nostro concerto al Ridotto della Scala di Milano nel 1988, con le musiche dei compositori ebrei italiani perseguitati rappresenta il punto più alto del “mio” Novecento, e il punto di partenza per tutto quello che ho fatto in seguito.