Roma 10 marzo 1963, 14 Adar 5723 Purim

Testo di Sara Cividalli

Si sposa l’Anna, la più piccola delle figlie grandi di Giorgia Cividalli, l’ingegnere. Di Puriiiimmm? Di Purim NON ci si sposa, la futura suocera lo ha decretato ben sicura degli usi romani e anche l’ufficio rabbinico non ne vuole sapere, di Purim non ci si sposa. La futura sposa però è sicura di sé, spiega che suo padre, a Firenze, nel 1948, proprio il giorno di Purim, si è sposato con la Micia, la sua seconda moglie. Devono cedere all’evidenza.

Le questioni non finiscono qui, l’ingegner Cividalli è contrarissimo al matrimonio al tempio, a Firenze non usa. Eppure, deve cedere. Alla cerimonia, però non ci sarà nessun fotografo, su questo è irremovibile. Le foto verranno fatte a casa della sposa, alla festa con gli amici e a quella con i parenti. Sì, perché a Firenze non si fanno i festeggiamenti negli alberghi o in luoghi pubblici come a Roma, ma chi può li fa a casa. Farà lui le foto come le ha fatte al matrimonio della secondogenita, Carla.

Mi chiedo chissà cosa pensassero i protagonisti mentre la madre dello sposo, la Signora Lina Tagliacozzo, e il padre della sposa discutevano. Non ricordo che siano stati consultati, avevo dieci anni e forse erano discorsi da grandi a cui non potevo partecipare.

Il giorno delle nozze la sposa era bellissima, (quale sposa non lo è, direbbe la zia Ida Bonfiglioli. L’Anna, però, era bella davvero) con un vestito semplice ed elegantissimo, lungo, con lo strascico appena accennato, il velo stupendo. Da brava damigella della sposa anche io ero molto elegante con un vestito rosa di tessuto pregiato, un vestito che poi avrei definito improbabile, e una coroncina in testa. Ero emozionatissima, la sorella con cui avevo vissuto per 10 anni, che mi aveva fatto giocare, che aveva organizzato i miei compleanni, con cui avevo anche bisticciato, si sposava. Aveva 24 anni come lo sposo, Nando.

La prima figlia, Miriam, si era sposata nel ‘51, aveva appena compiuto vent’anni. Matrimonio a casa con un officiante di eccezione quello che sarebbe stato il futuro rabbino capo di Firenze e che allora era il morè Belgrado, Fernando.

Le foto sono state fatte da un fotografo e stampate in grande formato. Non sono state attaccate alle pagine di un album ma conservate avvolte in una carta in un cassetto della scrivania della Micia, la mia mamma. Quando ero piccola le ho guardate mille volte, forse di nascosto. Mi affascinavano le signore vestite con abiti di seta, mi sembrava di sentire la stoffa frusciare, ammiravo i cappelli dalle diverse fogge, studiavo le loro pose composte e allo stesso tempo quasi in movimento. Cercavo di riconoscere i volti noti, indagavo per vedere se scorgevo somiglianze. Immaginavo i loro discorsi, sentivo le loro risate delicate.

La casa, che ben conoscevo, sembrava un’altra, perfettamente in ordine, le tavole erano imbandite per il ricco buffet servito da camerieri impettiti.

L’unico bimbo, Ariel, figlio della sorella dello sposo, Giulio Canarutto, appare in una foto adagiato su un ricco portenfant in braccio alla sposa, in segno di buon augurio. Nei matrimoni seguenti bambini e bambine saranno tanti.

Quando la mia mamma è morta, non senza un po’ di dispiacere, ho dato quelle foto alla Miriam che ne era la legittima proprietaria. Questo doveroso passaggio sanciva la fine di un mondo infantile di fantasie e sensazioni magiche.

La secondogenita, Carla, ormai residente in Israele, nel ‘57 era venuta a Roma per sposarsi in quella che al momento era la casa di famiglia. Si è sposata solo religiosamente creando poi un sacco di difficoltà burocratiche.

Al matrimonio parenti, amici. Ero la damigella della sposa, mentre Daniel, il figlio grande di mia sorella Miriam, di nove mesi più grande di me, durante la cerimonia teneva un cero. Odore di bruciato! Sono i capelli Daniel che sfrigolano come le pennette delle zampe dei polli. Nessun pericolo, un piccolo incidente senza conseguenze, un piccolo incidente che mi ha divertito moltissimo nonostante l’aria seria e compunta che mi ricordo di aver mantenuto. Tanti bambini e tante bambine. Penso che sia stato un matrimonio allegro, io mi sono divertita.

Il babbo non ha accettato di buon grado nessuno dei suoi generi, era un brontolone, su ognuno aveva qualcosa da ridire, e discuteva con la mia mamma a cui piacevano tutti e tre, ognuno per quello che era. Secondo me, poi, li ha apprezzati anche lui.

Quando avevo 32 anni mio padre disse che pur che io avessi dei figli avrebbe accettato anche che si chiamassero Cividalli, Insomma passava sopra alla sua rigida morale ottocentesca, perché i figli e le figlie sono la gioia più grande della vita. Sentire di essere fonte di gioia credo sia un regalo bellissimo che forse lì per lì non ho riconosciuto e di cui io ora Sono grata.

Quando gli ho fatto conoscere quello che sarebbe stato il mio futuro marito lo ha accolto con uno squillante “Baruch abba”. Non ha visto il mio matrimonio, è morto due anni prima, e comunque non aveva proprio indovinato. Sono l’unica il cui matrimonio si è concluso con un divorzio. Non ha avuto il dono della preveggenza.

Una figliola, in ogni caso, l’ho avuta.